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giovedì 22 gennaio 2015

Isabella Morra

Isabella Morra. Isabella Morra è stata la più grande poetessa italiana del Cinquecento e le sue rime furono così elevate da spingere uno studioso del calibro di Benedetto Croce alcuni anni della propria vita in un remoto angolo della Basilicata per meglio comprenderne la vita e le opere. "Ero tratto - scrive Croce nel suo libro "Vite di avventura, di fede e di passione" - dal desiderio di un più sensibile ravvicinamento ai casi del lontano passato per mezzo delle cose che vi assistettero muti testimoni, e che non sono, o assai poco, cangiate nell'aspetto, e sembrano svegliarne o prometterne la più vivace evocazione ..."

Valsinni e il castello dei Morra


Isabella Morra, questo il nome della poetessa, nacque a Favale (l’attuale Valsinni), in Basilicata, nel 1520 dal barone Giovan Michele di Morra e Luisa Brancaccio. Ebbe sei fratelli ed una sorella: Marcantonio, primogenito, Scipione, Decio, Cesare, Fabio, Camillo e Porzia. Il barone Giovan Michele, che proveniva dai circoli umanistici di Napoli e buon conoscitore delle lettere classiche ed anche lui poeta, per certi conflitti accaduti tra i suoi ufficiali e vassalli e quelli del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, aveva suscitato lo sdegno ed era incorso nell’inimicizia di questo potente signore. Inoltre, dopo l’invasione del Regno da parte dei Francesi, il barone fu accusato di parteggiare per costoro e di aver tradito gli Spagnoli e fu costretto nel 1528  a fuoriuscire, per recarsi dapprima a Roma e di là in Francia, alla corte di Francesco I, dove si fermò. Lo seguì il secondogenito Scipione, assai colto in lettere latine e greche, che per gli studi condotti, durante i quali ebbe come compagna Isabella, riuscì ad ottenere una sistemazione dignitosa. A Favale rimaneva tutta la famiglia, che non era  culturalmente pari ad Isabella. Costei, come la madre e Porzia, secondo le more e le consuetudini della nobiltà coeva, fu praticamente relegata nel castello avito dai fratelli. Di spirito fine e certamente libero, Isabella patì fortemente la forzata residenza, che, a giudicare dagli scritti, dovette esserle oltremodo penosa.
            Poco distante da Favale, nel castello di Bollita (attuale Nova Siri), si recava di frequente lo spagnolo don Diego Sandoval de Castro, che aveva ricevuto quel feudo come dote di sua moglie Antonia Caracciolo, che là viveva, mentr’egli dimorando in contumacia in Benevento, da qui veniva furtivo a visitare la moglie. Durante una di queste visite, si può supporre, conobbe la giovane Isabella, la quale è da ritenere fosse in amicizia con la Caracciolo, se il Sandoval si valse del nome della moglie per inviarle lettere e versi.  “Ora accadde – scrive Croce – che ai fratelli fosse dato avviso di lettere contenenti versi che il De castro, in nome di sua moglie, aveva inviate ad Isabella per mezzo di un pedagogo o maestro di scuola. I fratelli le sorpresero, ancora chiuse e non lette tra le mani di lei, che affermò venirle dalla Caracciolo, come le era stato detto: la quale risposta non frenò il furore di quei tre, Cesare, Fabio e Decio, 'che il luogo agreste aveva educati feroci e barbari', i quali senza por tempo in mezzo, misero crudelmente a morte il pedagogo, e poi uccisero a pugnalate la sorella innocente.” Era l’anno 1546. Nello stesso anno, don Diego Sandoval de Castro, mentre si recava a visitare la moglie, cadde in un’imboscata che i fratricidi gli avevano teso. Fu ucciso con tre archibugiate nel territorio della odierna Noepoli.
            Il Sandoval corteggiò Isabella Morra? Provò per lei un qualche sentimento d’affetto? Isabella corrispose ai suoi sentimenti? Di certo non vi sono note, leggende o documenti che attestino l’incontro fra i due. “Di questo dramma segreto – asserisce Croce – non sappiamo nulla: sappiamo solamente che il Sandoval, servendosi dell’intermediario del maestro di scuola che era in casa dei Morra, le scrisse lettere e le mandò versi, per la prima volta, secondo il nipote e biografo, e non per la prima volta e non senza risposta di lei, secondo la voce che corse in quei luoghi.”
            Ci sono pervenuti di Isabella Morra tre canzoni (Alla Vergine, Sposa di Cristo, Alla Fortuna) e dieci sonetti. “Il carattere personale – scrive Croce – dei versi della Morra e il non vedervisi segno alcuno di esercitazione o bellurie letteraria formano la loro prima attrattiva.” Di chiaro spirito libero e superiore, Isabella fu resa prigioniera dalla vita, che la privò del padre, del quale sentirà sempre ed ossessivamente la mancanza […de l’infanzia in quei pochi anni,/del caro genitor mi festi priva,/che, se non è già pur ne l’altra riva,/per me sente di morte i gravi affanni,/chè ‘l mio penar raddoppia gli suoi danni…] ; dai fratelli, che la rinchiusero nel castello di Favale per inumane consuetudini nobiliari […fra questi aspri costumi/di gente irrazional, priva d’ingegno,/ove senza sostegno/son costretta a menar il viver mio,/qui posta da ciascuno in cieco oblio…]; dalla fortuna […Qui non provo io di donna il proprio stato/per te, che posta m’hai in sì ria sorte/che dolce vita mi saria la morte…]. Ma  quando lo sconforto trascendeva nella disperazione non le restava che rifugiarsi nella fede, ora rivolgendosi a Cristo come sua sposa mistica ora alla Vergine con devozione filiale.  “Anima ardente - conclude Croce – se altra mai, arde ancora tutta nei superstiti suoi versi.”
            Nel recarsi sullo scenario montano luogo della vicenda è ancora oggi possibile riandare sulla via mulattiera, che congiungeva la Bollita al castello di Favale, e che percorse lo sciagurato pedagogo latore delle lettere fatali; ed ancora visitare in Valsinni il castello dei Morra e da lì vedere a valle il “torbido” Sinni e alle spalle l’”alto monte” Coppola da dove si scorge il lontano mar Jonio; oppure semplicemente calpestare quei “ruinati sassi”, “muti testimoni” della breve vita e delle dolorose rime di Isabella Morra.

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